giovedì 8 marzo 2018

Agnès Varda e il cinema prima dell'onda


Spesso mentre gli uomini stanno a ragionare su come fare meglio una cosa e renderla al meglio delle proprie possibilità, si scopre che una donna, quella cosa, l’ha già fatta.


Studiando la storia del cinema non è raro imbattersi nella figura di donne straordinarie che sono riusciti a guardare avanti molto meglio di tanti uomini della loro generazione. Poi, chissà perché, vengono ricordate e celebrate molto meno di quanto non meriterebbero. Qualche giorno fa ricordavo la figura di Alice Guy Blaché che per prima scoprì le potenzialità che il cinema poteva avere in ambito narrativo praticamente all’indomani della celebre presentazione dei fratelli Lumière. Praticamente inventò la sceneggiatura per il cinema ma pochi la conoscono. 
Negli anni Cinquanta il dibattito critico all’interno del cinema francese era surriscaldato soprattutto grazie ai quei ragazzi terribili che scrivevano sui Cahiers du Cinéma e auspicavano un cinema nuovo, libero, vero, lontano da quel “cinema di papà” (come era chiamato con disprezzo) che era ormai diventato il cinema contemporaneo, soprattutto quello francese. Quei ragazzi si chiamavano Truffaut, Godard e Rohmer e a partire dal 1959 avrebbero iniziato a dirigere delle opere che cambieranno per sempre il modo di intendere il cinema. Ma mentre loro scrivevano articoli di fuoco dalle pagine della rivista francese (che per ogni cinefilo ha quasi l’autorità di una sentenza della Corte di Cassazione), una ragazza di ventisei anni, gira nel 1954, una pellicola che a detta di molti è il primo film della Nouvelle Vague. Quella ragazza si chiamava, o meglio si chiama, perché per fortuna è ancora viva ed è una splendida donna di ottantanove anni, Agnès Varda.
Aveva girato con pochissimi mezzi ma tantissima originalità e libertà espressiva “La pointe courte”. Come protagonista un ancora sconosciuto Philippe Noiret. Le riprese furono poi montate da un tale che avrebbe contribuito a fare la storia del cinema ma che allora era ancora all’inizio della sua carriera. Si chiamava Alan Resnais e ogni amante del cinema sa benissimo quello che ha realizzato. Resnais guardando il materiale girato da quella giovane ragazza si permette di fare un paragone con “La terra trema” di Visconti. La Varda non era però una cinefila militante, lei ricorda che allora non sapeva neanche che a Parigi ci fosse una cineteca. Quando il film della Varda esce non avrà il clamore che cinque anni dopo pellicole come “I quattrocento colpi” o “Fino all’ultimo respiro” porteranno all’esplosione della Nouvelle Vague ma è impossibile non vedere in quell’opera tutti i segni che i giovani critici dei Cahiers auspicavano per il “nuovo” cinema. Passarono sette anni da quella pellicola prima che Agnès Varda riuscisse a realizzare un’altra opera. Era il 1961 e realizza un altro grande film “Cléo dalle 5 alle 7”. Questa volta, dopo la svolta del 1959, viene acclamata e riconosciuta come un’importante autrice del movimento. Ma lei con i giovani turchi della nouvelle vague non è che avesse fatto proprio un percorso in comune. Chi recuperava il film del 1954 la considerava la vera iniziatrice della nuova onda. Lei scherzando ricorda che nonostante non avesse ancora trent’anni, la chiamavano la nonna della nouvelle vague.
Agnès Varda continuerà a girare ancora diversi film nella sua carriera (alcuni bellissimi come “Senza tetto né legge” o “Garage Demy”) e ancora lo scorso anno riesce a presentare a Cannes un’opera sorprendente per freschezza e originalità “Visages Villages” girata assieme a uno street artist di trentaquattro anni: un viaggio attraverso le strade francesi a bordo di un camioncino per immortalare i volti delle persone incontrate e stimolare un dibattito straordinario sul tema dell’identità. A Cannes hanno avuto un grande successo e questa meravigliosa nonna sembra molto più giovane di tanti autori contemporanei.

Alice Guy Blaché - La donna che inventò il cinema



Ho sempre sognato di conoscere l’identità di ognuno dei trentatré spettatori paganti della serata simbolo per ogni cinefilo. Quella del 28 dicembre del 1895, quando a Parigi al Salon Indien del Grand café venne presentato per la prima volta uno spettacolo cinematografico. Solo trentatré spettatori. Non si poteva certo definire un successo e infatti la famosa frase sul cinema senza futuro pronunciata da uno dei fratelli (ma qualcuno afferma che a dirla fu il padre, incavolato nero per lo sperpero di denaro che i figli fecero per inventare la fotografia in movimento) spiega bene il senso di delusione per quella serata non proprio affollata. 
Eppure proprio da quella serata nasce tutto. Molti sanno che tra il pubblico si trovava George Mélies che rimase sbalordito dal potere fantastico del cinematografo e si mise subito in moto per unire la sua attività di illusionista con le possibilità che gli offriva la nuova scoperta. Ma probabilmente pochi conoscono la storia di Alice Guy Blaché, una ragazza di ventidue anni che a detta di molti è stata la persona che ha dato la spinta decisiva per fare diventare il cinema ciò che noi amiamo.
A quella serata Alice andò per accompagnare il suo datore di lavoro, l’ingegnere Gaumont che si occupava di apparecchiature fotografiche e che sarebbe diventato uno dei maggiori produttori cinematografici francesi. Tra quei dieci cortometraggi, che all’epoca non potevano durare più di un minuto ciascuno, c’erano quelli famosissimi del treno che arrivava alla stazione e degli operai che uscivano dalla fabbrica. I fratelli Lumière erano anch’essi nel campo della fotografia e il cinema rappresentava per loro un’applicazione avanzata dell’immagine, l’immagine in movimento appunto. Cinema come documentazione del reale. Ma Alice (e mai nome fu più adatto) capisce che quella sera per lei fu come entrare nella tana del bianconiglio. Un universo fantastico si apriva. Chiese timidamente al suo datore di lavoro di potere usare della pellicola per fare degli esperimenti cinematografici. Ma per lei fare esperimenti non voleva dire mettere la macchina da presa per strada per filmare ciò che capitava. Lei voleva preparare delle scene. Prepararle, cioè scriverle, fare una sceneggiatura diremmo oggi. Perché con il cinema non potevamo forse anche raccontare delle storie? Semplice dirlo oggi ma allora non c’era arrivato ancora nessuno. L’ingegnere Gaumont diede il suo assenso (a patto di non fare questi esperimenti negli orari di lavoro). Nell’aprile del 1896, quattro mesi dopo quella leggendaria serata, la Blaché da alla luce il suo primo film “La fée aux Choux” che sarà seguito da tanti altri lavori. 
A partire da quella data diventò chiaro a molti che il cinema un futuro lo avrebbe avuto eccome. Le donne non avevano ancora il diritto di voto ma quella ragazza poco più che ventenne ci aveva regalato qualcosa di straordinario.

martedì 5 luglio 2016

Abbas Kiarostami (1940-2016)



Quando muore un artista che hai apprezzato e amato ci si sente inevitabilmente più deboli. La speranza che una persona preziosa possa ancora regalarti delle opere che ti renderanno più agevole l’esistenza si blocca improvvisamente. Quando ieri sera ho letto della morte di Abbas Kiarostami ho provato quel senso di vuoto che prende quelle volte in cui non ti senti più sicuro sulla strada da prendere, come se una guida importante ti girasse improvvisamente le spalle. Ho iniziato a studiare il cinema in modo serio agli inizi degli anni Novanta quando era in pieno splendore la cinematografia di un paese, quello iraniano, ancora pochissimo conosciuto in occidente. Kiarostami fu il precursore di quel cinema, colui che aprì la strada a decine di grandi registi dopo di lui. Il primo commento che ho letto ieri sera è stato quello di Asghar Farhadi (assieme a Panahi il più grande regista iraniano contemporaneo) che riconosceva proprio a Kiarostami questo merito. Nel 1987 aveva girato Dov’è la casa del mio amico  che arrivò in Europa qualche anno dopo ricevendo un grandissimo successo di critica. Si parlava di un cinema che raccoglieva l’eredità più pura del neorealismo italiano ma a guardarlo bene i punti in comune non erano proprio tanti. Una volta Kiarostami ebbe a dire che lo imbarazzavano quei paragoni così importanti. Quando aveva iniziato a fare cinema non aveva una grossa esperienza da spettatore cinefilo. Spesso alle domande che lo accostavano a Rossellini o De Sica non sapeva bene cosa rispondere. In realtà il suo cinema era profondamente figlio della cultura iraniana e poco aveva da spartire con riferimenti altri. C’era la povertà produttiva, l’uso di attori non professionisti, gli ambienti reali ma con il neorealismo nessun altro paragone era possibile. L’Iran di quegli anni era un paese che viveva una situazione molto particolare, la rivoluzione di Khomeini del 1979 aveva rivoltato il paese da tutti i punti di vista. Il cinema nasceva praticamente da zero e negli anni Ottanta giovani registi che volevano girare dei lungometraggi si affidavano ai fondi dell’istituto per lo sviluppo intellettuale dell’infanzia (Kanun), a causa di ciò i soggetti erano quasi sempre riconducibili a storie del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma Kiarostami a partire da quei soggetti imposti riusciva a inserire una poetica e uno sguardo universale sull’uomo. Come nei film di Ozu, quasi sempre ambientati nel Giappone del secondo dopoguerra, riusciamo a scorgere elementi universali del nostro essere così Kiarostami con quelle storie minime riusciva a parlare agli uomini di tutte le latitudini.

Avere vent’anni e avere conosciuto il suo cinema è stato per me un privilegio incredibilmente alto. Probabilmente grazie alle sue opere ho compreso che il cinema non sarebbe stato soltanto una passione ma doveva diventare qualcosa di più. La fortuna volle che in quegli anni ebbi anche la possibilità di incontrarlo diverse volte, brevi dialoghi spesso in un inglese o francese stentato altre volte con l’aiuto di un interprete (quasi sempre il suo grande amico Babak Karimi residente da anni in Italia). Il festival del cinema di Taormina negli anni Novanta era organizzato da tutto il gruppo di Fuori Orario. La direzione di Enrico Ghezzi diede a noi giovani studenti universitari la possibilità di crescere guardando un cinema che ci sarebbe stato difficile vedere in altri luoghi. La presenza di Kiarostami, così come quella degli altri grandi registi iraniani come Amir Naderi e Mohsen Makhmalbaf era una piacevolissima consuetudine. Kiarostami era già il più grande ma anche il più timido dei tre. La mia speranza era sempre quella di poterlo incontrare per potere chiacchierare con lui. Era sempre molto disponibile a rispondere a quel ragazzino abbastanza fanatico che ero in quegli anni. A volte con una pizzetta in mano (solo pranzo che noi giovani studenti potevamo permetterci) lo bloccavo al palazzo dei congressi per rivolgergli delle domande sul suo cinema e lui era sempre pronto a rispondere. Nel frattempo gli rifilavo libri che parlavano di lui e locandine delle vhs che già allora compravo per farle autografare. Lui rideva sornione con Amir Naderi accanto stupito del fatto che quei film fossero usciti in cassetta in Italia. Una volta Naderi mi chiese se avessi visto anche i suoi film ma purtroppo dovetti rispondere di no, lui ridendo mi disse che dovevo rimediare al più presto se volevo ancora parlare di cinema con loro. Naturalmente lo feci. Nel 1997 Kiarostami arrivò alla consacrazione internazionale grazie alla palma d’oro vinta a Cannes con Il sapore della ciliegia. Il film arrivò in anteprima italiana, naturalmente a Taormina, nell’estate di quell’anno. Fu l’unica volta che riuscì a permettermi il prezzo del biglietto al teatro greco (gli ingressi al palazzo dei congressi dove si svolgevano le altre proiezioni erano per nostra fortuna gratuiti). Ancora una volta fu una folgorazione, ebbi subito chiaro di avere assistito a un’opera immensa. Quando uscì del teatro mi ritrovai davanti Kiarostami assieme a Babak Karimi e un uomo con una telecamera. Kiarostami fece segno a Babak di fermarmi e mi fecero delle domande sul film. Ero assolutamente incantato e mi dovetti sforzare per parlare in maniera adeguata. Non ricordo più le parole che usai, poi la telecamera si spense e Kiarostami si avvicinò a me dandomi la mano e dicendomi semplicemente “thank you”. Io mi allontanai in fretta perché avevo iniziato a piangere come un bambino per tutte le emozioni che avevo provato quella sera. Qualche mese dopo ricevetti una telefonata da un’amica di Bologna che mi diceva di avere visto la mia intervista usata come trailer del film (in quegli anni si usava, per le presentazioni di certi film, raccogliere le interviste dopo la proiezione della prima italiana). Io non riuscì purtroppo mai a vederla. Sono passati quasi vent’anni da quel giorno, il cinema per me è diventato anche un lavoro, Kiarostami ha fatto diversi altri film, altri grandi altri meno riusciti. Dal 2005 (dopo l’arrivo del governo di Ahmadinejad) ha iniziato a girare film all’estero senza però riuscire a essere il grande regista di prima. Ma ha continuato a essere uno dei più grandi maestri del cinema. Gli spezzoni dei suoi film, i piccoli segreti che mi confidava in quei dialoghi rubati sono argomento fisso delle mie lezioni di cinema. Ogni anno so che dopo la lezione sull’utilizzo del campo lungo al cinema (quando faccio vedere il finale di Sotto gli ulivi) qualcuno dei miei allievi mi chiederà i film di Kiarostami e poi mi dirà di essersene innamorato. Io allora sento di avere fatto bene il mio lavoro. Adesso che lui non c’è più mi sento più solo ma continuerò a parlare del suo cinema, delle sue opere, della sua grandezza e della sua umanità e i miei ricordi con lui saranno ancora più preziosi. Thank you Abbas

Sergio Barone

domenica 8 novembre 2015

Alain Delon - Ottant'anni di un uomo



Quando nel 1990 Jean Luc Godard lo scelse come protagonista per un suo film sembra che giustificò questa sua scelta dichiarando “avevo bisogno di uno che non sapesse recitare…”. Certamente solo a uno come Godard, e a pochissimi altri, si poteva permettere di lasciare impunita una simile affermazione così netta nei confronti di una vera e propria icona del cinema francese. Eppure andando a spulciare tra i giudizi dei critici che nel corso degli anni lo hanno messo al centro delle loro analisi non è raro imbattersi in giudizi non troppo lusinghieri nei suoi riguardi. Sicuramente il fatto di avere interpretato tantissimi film e non tutti di alta qualità (destino comune per tanti grandi attori), ha contribuito a rendere meno evidente la sua bravura. Possedere poi una faccia come la sua, che ha fatto perdere la testa a generazioni di donne, non aiuta chi mal concilia la bellezza fisica con la bravura (e anche Marilyn ne sapeva qualcosa).
La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Delon è stato, ed è, un grandissimo interprete cinematografico ma solo se modellato dalle mani di un autore sensibile che sapesse tirare fuori dalla sua figura il meglio. Pochi ci sono riusciti ma ogni volta che questo accadeva si compieva il miracolo. Da giovane ragazzo appassionato di cinema, ma ancora acerbo nel gusto, vidi diversi film con Alain Delon, erano soprattutto quelli più commerciali come Zorro o Airport ’80 che mi davano l’impressione del solito divo lontano e finto, possibile nella sua esistenza soltanto se impresso nella pellicola cinematografica. Non vedevo l’uomo dietro l’interprete. Questo successe per diverso tempo. Poi la mia evoluzione di spettatore mi fece scoprire capolavori come Rocco e i suoi fratelli di Visconti o Mr. Klein di Losey. Ecco che dietro quella maschera di bellezza dell’attore Delon cominciavo a vedere qualcosa di più. Quegli occhi blu ma glaciali dove rischiavi di venire travolto da un’incontrollata cascata di emozioni. Quella malinconia di fondo che ne faceva un interprete da non usare in ruoli brillanti o da commedia senza perderne irrimediabilmente qualcosa di importante. Poi, in un pomeriggio d’estate abbastanza anonimo di una ventina d’anni fa, arriva il miracolo a cui mi riferivo. Guardo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, grandissimo autore italiano purtroppo non considerato come meriterebbe. Delon interpreta un professore di liceo di Rimini (una città lontana anni luce dall’immaginario felliniano); vestito con un maglione verde e un cappotto color cammello: il cinema compie la magia di rendere eterno un personaggio. Ancora oggi ogni volta che penso a Delon lo immagino vestito con quel cappotto, quello sguardo malinconico di chi alla vita non ha più molto da chiedere ma, nonostante questo, non rinuncia a essere vivo. Con disillusione certo, con la consapevolezza che per quanti sforzi riesci a fare la gioia ti scivolerà sempre tra le dita come la pioggia del cielo. Fu grazie a quel film che mi legai all’attore Delon in maniera fortissima. Cominciai a vedere tutti i suoi lavori, anche i meno riusciti per ritrovare, fosse anche per un attimo, quella strana luce dei suoi occhi, quella malinconia di chi ha tutto vissuto e guarda il mondo con una consapevolezza fuori dall’ordinario. Naturalmente anche l’uomo Delon cominciava a interessarmi, quello sguardo era solo frutto della sua capacità interpretativa o era un suo segno distintivo personale? Alla fine degli anni Cinquanta, tra le tante storie d’amore fra divi del grande schermo, quella tra Alain Delon e Romy Schneider fu tra le più celebri. La grandissima attrice venuta alla ribalta interpretando la principessa Sissi ma confermatasi in futuro come una delle più importanti interpreti del Novecento (personalmente la ritengo allo stesso livello della Bergman e della Magnani) e musa dei più importanti registi francesi degli anni Sessanta e Settanta. La storia tra Delon e la Schneider durò circa cinque anni ma i due rimasero amici per tutta la vita. Una volta la Schneider dichiarò che una storia d’amore rimane unica quando ci si continua a chiamare, a lanciarsi dei richiami per non perdersi mai. Subentrano altre storie, altri tradimenti, figli, felicità con altri ma una sola rimane la storia d’amore della vita. Continuò dicendo che Delon rimaneva l’unica persona sulla quale poteva contare, l’unico che sarebbe accorso al suo primo richiamo aggiungendo che però lui non le aveva mai scritto nemmeno una lettera ma solo biglietti. Il destino fu molto duro con la Schneider, la vita le tolse un figlio ancora adolescente e da quella perdita lei non riuscì mai più a riprendersi tanto che anche lei morì dopo meno di un anno. La vita prende tante altre strade e sia la Schneider che Delon avevano costruito altre esistenze ma la notizia della morte del suo antico amore fu devastante. Quella sera sul letto di morte della Schneider, Delon trascorse parecchie ore, volle restare solo con lei, le scattò delle foto che porta sempre con sé e non andò al suo funerale; il giorno seguente alla sua sepoltura rimase sulla sua tomba per molte ore. Quella notte, mentre l’accudiva sul letto di morte, le scrisse la sua unica lettera d’amore che ancora oggi riesce a commuovermi. Questi sono alcuni passi:
“Ti guardo dormire. Sono accanto a te, sei vestita di una lunga tunica nera e rossa, ricamata sul petto. Sono fiori, credo, ma non li guardo. Ti dico addio, il più lungo degli addii, mia Puppelé . È così che ti chiamavo, "Piccola bambola" in tedesco. Non guardo i fiori ma il tuo viso e penso che sei bella, e che forse non lo sei mai stata così tanto. Per la prima volta nella mia vita - e nella tua - ti vedo serena, in pace. Come sei calma, come sei bella. Sembra che una mano abbia dolcemente cancellato dal tuo viso tutte le angosce”
“Ti guardo dormire , dicono che sei morta. Penso a te, a me, a noi. Di che cosa sono colpevole? Ci si pone una domanda simile davanti una donna che si è amata e che si ama ancora”
“Ti guardo dormire . Ieri ancora eri viva. Era notte. Appena rientrati a casa hai detto a Laurent "va a dormire, vengo tra poco. Resto un po' con David ascoltando musica". Facevi così ogni sera... Volevi restare sola con il ricordo di tuo figlio morto, prima di andare a dormire”
“Non verrò in chiesa né al cimitero , ti chiedo perdono perché sai che non riuscirò a proteggerti dalla folla, da questo tormento così avido di "spettacolo" che ti faceva tremare. Verrò a trovarti il giorno dopo, e noi saremo soli. Mia Puppelé, ti guardo ancora e ancora. Voglio divorarti di sguardi. Riposati. Sono qui, vicino. Ho imparato un po' di tedesco, grazie a te. Ich liebe dich . Ti amo. Ti amo, mia Puppelé”.

Buon ottantesimo compleanno.

domenica 1 novembre 2015

Le origini del cinema noir



Quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, arrivarono in Francia alcune opere cinematografiche che sembravano essere unite da una identica atmosfera narrativa, due critici francesi Nino Frank e Jean-Pierre Chartier scrissero un articolo che probabilmente neanche loro immaginavano potesse dare il nome a uno dei generi cinematografici più affascinanti della settima arte. L’articolo aveva per titolo Les américains font aussi des film “noir” (Anche gli americani fanno film “noir”). I film americani ai quali i due critici si riferivano erano dei veri e propri capolavori del cinema statunitense degli anni Quaranta: Il mistero del falco, La fiamma del peccato, L’ombra del passato, Il postino suona sempre due volte. Le storie di violenza, le atmosfere notturne e i personaggi spesso problematici e malinconici che stavano al centro di quei film, e di tanti altri che furono prodotti negli Stati Uniti a partire dal 1941, facevano ricordare ai due critici francesi il mondo raccontato nei famosi film francesi degli anni Trenta conosciuti sotto l’etichetta di realismo poetico francese (quelli di Carné e Prevert per citare i più celebri). Anche in quelle pellicole infatti l’atmosfera noir era indispensabile per comprendere quell’universo fatto di personaggi che vivevano ai margini. Il noir diventava così un termine pratico e veloce per comprendere la realtà raccontata in quelle opere fino a diventare un genere cinematografico a se stante come il western, la commedia o il musical.
Il noir americano aveva però delle peculiarità del tutto proprie che, pur non organizzandosi mai in scuola vera e propria (come fu per l’espressionismo in Germania), lo rendeva assolutamente originale nel panorama cinematografico mondiale . Per comprendere questo dobbiamo fare un piccolo passo indietro e guardare alla società statunitense degli anni Trenta, dominata dalla crisi economica post 1929 e dalla violenza urbana che tanto bene era stata raccontata nel cosiddetto filone dei gangster movie (a questo filone appartengono capolavori come Scarface o Piccolo Cesare). Il modo di guardare la società in questi film era diretto, crudo; probabilmente per la prima volta la società americana raccontava se stessa mettendo al centro il lato oscuro della propria anima. Questa sensibilità artistica non era esclusiva del cinema ma si era sviluppata anche in narrativa con la celebre letteratura hard-boiled. Autori come Dashiel Hammett e Raymond Chandler avevano liberato le storie di crimini dalle ripetitive strutture dei gialli alla Agatha Christie dove in ogni racconto l’obiettivo unico era trovare l’assassino. Adesso si trattava di raccontare un paese, le sue difficoltà e gli uomini che lo abitavano. Le violenze, gli intrighi, le patologie del mondo narrato nei noir, sia in letteratura che al cinema, divennero uno degli strumenti più affascinanti per parlare dell’America di quegli anni. Il cinema disponeva inoltre di altri vantaggi di non poco conto. Hollywood aveva avuto negli anni Trenta un grandissimo afflusso di professionalità del cinema europeo in fuga dall’Europa sull’orlo del conflitto. Soprattutto dalla Germania nazista un grande numero di registi, attori, direttori della fotografia avevano portato negli Stati Uniti un altissimo bagaglio di arte e professionalità che si vennero ad unire alla grande organizzazione degli studios e alla loro non indifferente disponibilità economica.

Si può affermare quindi che il noir classico statunitense nasce dall’unione di forze rappresentata dalla capacità spettacolare dei produttori americani con la sensibilità artistica europea. In ambito più strettamente tecnico il noir è la fusione del gangster movie americano degli anni Trenta, dell’espressionismo tedesco degli anni Venti e del realismo poetico francese dei primi anni Trenta. La violenza urbana e il mondo cittadino dei film americani, la fotografia quasi metafisica dei film tedeschi con il loro carico di angoscia e i personaggi malinconici e disillusi del cinema francese; ecco come dall’unione di tre cinematografie distanti tra loro poté nascere il noir americano. Parlare di come si sia poi evoluto fino alla fine degli anni Cinquanta (per convenzione si fa terminare il genere con L’infernale Quinlan di Orson Welles del 1958) richiederebbe una trattazione molto ampia. Ciò che di certo abbiamo è che, a partire da quell’investigatore privato di nome Sam Spade interpretato dal leggendario Bogart ne Il mistero del falco di John Huston, il cinema non sarebbe più stato lo stesso.

Sergio

Scena finale "Il mistero del falco" - 1941


lunedì 22 settembre 2014

The wolf of Wall Street - Martin Scorsese



Anche se Martin Scorsese non girasse più film avrebbe già guadagnato il suo posto di rilievo all’interno della storia del cinema. Pochi come lui hanno saputo raccontare la vita della metropoli americana moderna. Ci sono registi che vengono subito in mente se si pensa a un particolare stato d’animo. Pensiamo a Bergman quando riflettiamo sui tormenti dell’anima o ci viene in mente Fellini tutte le volte che parliamo dei sogni. Ci sono poi altri registi legati indissolubilmente a una città, la Parigi di Truffaut o la New York di Woody Allen ma anche quella di Scorsese. Non una New York da piani alti ma quella di strada, abitata non da alienazioni e nevrosi come nel cinema alleniano ma da sofferenze e disagi molto più fisici. Da questa New York da marciapiede nascono grandi capolavori come Mean Streets, Taxi driver o Toro scatenato. Scorsese fino alla metà degli anni Novanta ci ha regalato grandissime opere cinematografiche ma, così come è successo per l’altro grande regista newyorchese, ad un certo punto sembra avere smarrito la lucidità dei momenti migliori iniziando un processo involutivo che solo a sprazzi ci ha permesso di godere della sua bravura. Così ogni volta che guardo un nuovo Scorsese mi concentro con la speranza che il vecchio zio Marty riesca ancora a colpirmi duro con la sua arte.
Avevo grandi aspettative con The wolf of wall street, molta critica entusiasta, un Leonardo Di Caprio a detta di tutti in stato di grazia ma, ancora una volta (purtroppo), termino la visione con un bel po’ di amaro in bocca. Scorsese continua a girare in maniera impeccabile, il ritmo delle sue sceneggiature è di altissima scuola ma manca qualcosa di importante, probabilmente la più importante nel mio giudizio di un’opera, il suo essere necessaria. Molti hanno amato questa pellicola e in effetti il racconto che Scorsese fa della capitale mondiale della finanza con i suoi operatori senza scrupoli, è di pregevolissima fattura. Scorsese gira con un cinismo estremo, i personaggi sono tutti senza speranza di redenzione ma quando crei un’opera non provando empatia per nessuno dei tuoi personaggi giungi inevitabilmente a un livello di distacco troppo estremo per farla diventare sincera (e quindi necessaria). Flaubert diceva che madame Bovary era lui e probabilmente dietro lo sguardo allucinato di Travis Bickle in Taxi Driver c’era tanto del suo autore. Ma dietro la maschera feroce di Jordan Belfort, interpretato a onor del vero da un Di Caprio strepitoso, nessun raffronto è possibile. Non che per fare un film sul nazismo bisogna sentirsi un po’ Hitler ma se in  una narrazione cinematografica è totalmente assente la parte empatica arriva facilmente il sospetto che l’opera sia stata scritta a tavolino con esigenze più di nature commerciali che non poetiche.

Un abisso tecnico distanzia lo Scorsese di The wolf of Wall Street da quello ancora acerbo stilisticamente di Mean Streets ma quanta voglia in più in quel film. Voglia di raccontare il tuo ambiente, le tue radici, la tua educazione. Questo manca nell’ultimo Scorsese, voglia di raccontarci il suo mondo, con le sue contraddizioni e le sue paure. Senza paura di raccontare storie in qualche modo simili, perché i grandissimi registi non possono temere di parlare di loro stessi, dietro la loro vita e la capacità che hanno di filtrarla attraverso l’arte nascono i capolavori.

Sergio

Trailer:


venerdì 5 settembre 2014

Pasolini - Abel Ferrara

L'atmosfera della Mostra del Cinema di Venezia è di una bellezza indescrivibile. Una piccola isola come il Lido gremita di gente fino a mezzanotte inoltrata, tutti per guardare film dalla mattina alla sera. I più fortunati, quelli che riescono a ottenere un pass da giornalista, passano le loro giornate dentro le varie sale, guardando dai tre ai nove film al giorno. Io, coi miei pochi spiccioli, punto sul film che mi sembra più interessante e ho la segreta speranza di assistere a un capolavoro memorabile, così da poter dire in futuro “eh, io c'ero!”. Peccato che non sia stato questo il caso di Pasolini di Abel Ferrara.

Quando ho letto che Ferrara presentava un film su Pasolini ho pensato a film come King of New York, Fratelli, o Il cattivo tenente (quello vero, con Harvey Keitel) e ho creduto che poteva venirne fuori un film davvero superbo. Tuttavia, malgrado l'innegabile talento di Willem Dafoe, che nelle movenze e negli sguardi è di una bravura disarmante, il film risulta convincere poco, restituisce poco o niente del genio del vero Pasolini.

Impedimento più grosso di tutti è stato quello linguistico. Probabilmente è un mio limite non riuscire ad accettare un Pasolini che parla un inglese americanaccio, probabilmente deficito io di fantasia per non poter accettare la cerchia di amici e familiari che parla in italiano fra di loro e in un inglese da Supermario quando si rivolge al Willem-Pierpaolo, ma a neanche venti minuti dall'inizio avevo già mal di testa. Scusate, ma non riesco proprio a trovare la credibilità di un Pasolini che accoglie l'amica Laura Betti dicendole “how you doin'?”.

Ho voluto sperare il più possibile, ma quando ho visto Scamarcio interpretare il Ninetto Davoli di una volta, ho capito che proprio non c'era niente da fare.

Ferrara si è voluto concentrare nelle ultimissime giornate della vita del poeta bolognese, riprendendo il suo tragico omicidio lasciando poco spazio all'immaginazione. Le immagini forti e “scandalose” dominano il film dall'inizio alla fine, sicuramente un omaggio al coraggio con cui Pasolini girò scene che scandalizzarono ogni strato della società, dentro e fuori il paese. A differenza del grande maestro però, l'allievo Ferrara si dimostra poco capace di creare quella necessità narrativa che sta dietro alle immagini forti, senza la quale sono solo immagini fini a sé stesse. “Forti” solo per modo di dire, solo a livello visivo.

Peccato, perchè Pasolini era uno di quei registi che sapeva sconquassare, che non girava un'orgia solo perchè è una scena che richiama l'attenzione. Il suo era un cinema di denuncia, un cinema politico, necessario. Pochi come lui hanno saputo cogliere, con la sua stessa razionalità, gli aspetti della società in cui viveva e denunciarli con violenza in libri, poesie e film.

Rendere omaggio a una figura tanto spessa è un'idea tanto giusta quanto ardua, e, ahimé, non mi sento affatto di dire che Ferrara sia stato all'altezza di reggere il peso del compito.

Peccato davvero.

Robin